Una rassegna stampa critica sulla riforma del copyright
I giornali italiani si sono generalmente schierati a favore dell’intera riforma del copyright, per il palese e dichiarato motivo che bramano gli ipotetici proventi della link tax (articolo 11).
Per una spiegazione chiara e semplice ho tradotto la pagina del sito di Julia Reda. Originale qui, versione tradotta qui.
Corriere della Sera
Il Corriere ha messo fuori un editoriale del vicedirettore Daniele Manca e hanno “nascosto” la spiegazione vera e propria della riforma in questo articolo a “cards”.
Tralasciamo i numerosi errori di punteggiatura e la mancanza di qualche spazio, l’errore principale dell’editoriale è che fa una gran confusione tra articolo 11 e 13. E sono due, non era difficile.
Innanzitutto, parlando dell’articolo 13 dice che:
“Si impone a piattaforme come YouTube o Instagram e a i maghi della tecnologia che le guidano, di installare filtri che permettano di individuare contenuti protetti da copyright.”
Ignorando completamente le problematiche dei filtri pre-esistenti, tipo quelli di YouTube, che proprio di recente hanno bloccato in tutto il mondo le videolezioni dell’MIT e di Blender. (Parlando di questo episodio ho scoperto che c’è gente che non sa cosa sia l’MIT, ma mi sa che sono io che mi scelgo gli interlocutori sbagliati).
Manca parte chiaramente da una fondamentale incomprensione della tecnologia, basta dire che parla di maghi della tecnologia, espressione tipica di chi vive di pane e Aranzulla, e di chi si crogiola nella non-lingua del giornalismo italiano.
Subito dopo, ancora all’interno del paragrafo sull’articolo 13, scrive:
A far comprendere la posta in gioco sono i casi tedesco e spagnolo. Nei due Paesi dove hanno provato a introdurre delle forme di pagamento, Google ha semplicemente lasciato il mercato.
Facendo sembrare che Spagna e Germania abbiano già istituito una variante locale dell’articolo 13. In realtà hanno famosamente messo delle forme di link tax, con qualche differenza sia tra loro che con la proposta attuale. In Germania i singoli giornali potevano scegliere il compenso da chiedere a chi linkava (all’epoca soprattutto Google News), e hanno tutti scelto di rinunciare al compenso, avendo subito notato una perdita di traffico.
In Spagna il compenso minimo era obbligatorio, Google News ha chiuso i battenti, e i giornali hanno perso traffico e denaro.
Sull’articolo 11 invece Manca si difende bene, ma la campagna sui social è #DeleteArticle13. L’articolo 11 alla fine avrà effetti solo sui giornali, se non vengono fatte cazzate in fase interpretative. Ovviamente un giornale con le palle potrebbe già impedire ad altri siti di creare snippet degli articoli, mentre il Corriere inserisce tutto il markup perché gli snippet stessi vengano bene.
Chiaramente Manca spera di avere più potere contrattuale dopo la riforma.
Repubblica
Anche Repubblica ha affidato l’editoriale al proprio vicedirettore, il signor Smorto (hanno pure praticamente la stessa età, uno del 56 e l’altro del 57).
Secondo Smorto chi è contrario alla riforma del copyright “invoca la sacra gratuità dei contenuti”, ignorando completamente sia la quantità che la qualità delle persone e istituzioni coinvolte. Giusto per dirne una, Tim Berners Lee, inventore del web, si è dichiarato contrario alla riforma.
L’argomento di Smorto, in breve, è che fare giornalismo costa, e che mettere tutto gratis online non copre i costi, soprattutto perché Facebook mette le pubblicità mirate e loro no. Per questo è, di fatto, favorevole all’articolo 11. L’obiezione è la stessa, trovarsi un business model che funziona è responsabilità dei giornali e non dei legislatori.
La vera infamata è che riassume, alludendo solo, l’articolo 13 così:
Alcune parti della legge sono discutibili, le forme di controllo su chi scarica contenuti illegali inapplicabili: come dimostra quel brano o quella copia di Repubblica pirata che vi è capitato di ricevere in chat.
I filtri sarebbero in fase di upload, non di download, e giustamente non sarebbero in grado di bloccare ogni contenuto “illecito”. Il problema è che come sono fallibili in un verso lo sono anche nell’altro, possono bloccare erroneamente contenuti perfettamente legittimi, e non sono assolutamente in grado di distinguere tra un uso legittimo di materiale protetto da copyright (come le citazioni in questo articolo) e un uso effettivamente illegittimo (come gli interi episodi di serie televisive caricati su YouTube).
Il caso del falso positivo a me è già successo, ho filmato un concerto di musica di classica con video 360 e audio Ambisonics, per un progetto con Comune e Università di Parma, con tutti i crismi e tutti i permessi, e Facebook me l’ha bloccato sostenendo che un brano di Mozart appartenesse a non ricordo quale casa discografica.
Non so se è per ignoranza, ma stranamente nessuno favorevole alla riforma ha pensato di far notare che sulle piattaforme che la gente comune usa i filtri ci sono già. Allo stesso modo non hanno pensato di far notare che imporre alle piattaforme la responsabilità per i contenuti caricati dagli utenti è in palese contraddizione con l’articolo 15 della direttiva 2000/31/EC.
La Stampa
La Stampa ha bypassato il proprio vicedirettore, e si è espressa con un’intervista al proprio editore. Qui non mi soffermo nemmeno, che il livello retorico è veramente disgustoso. Dire che il non voler stravolgere la legge comunitaria per dar due spicci alla vecchia guardia è un attacco alla libertà di stampa è semplicemente obbrobrioso.
A seguito della chiusura per protesta, La Stampa ha pubblicato altri due articoli. Uno è una spiegazione abbastanza bilanciata, l’altro è un’altra presa di posizione netta e faziosa. Su quest’ultimo ci sono due note interessanti. Innanzitutto il parallelismo molto forzato tra “i giganti del web” e la Wikimedia Italia, che di sicuro non è un gigante, e di sicuro non è un gigante che vive di pubblicità, son tutte donazioni. Poi, ed è la più lampante, l’articolo si vende come risposta degli “editori europei”. Che da un certo punto è vero, nel senso che Carlo Perrone, lo stesso editore della Stampa che avevano già intervistato, è anche presidente della Associazione Europea Editori (ENPA).
Considerazioni catastrofiste
Un leitmotif del discorso sulla riforma del copyright è il tacciare lo status quo di favorire le multinazionali brutte e cattive, e di non dare spazio a prodotti culturali made in Europe. Vogliono metter quote varie, tasse varie, restrizioni varie. Il problema di fondo è che per un’azienda grossa, come Facebook o YouTube, l’adempienza legale è un problema perfettamente gestibile. Per una startup no. Dato che attualmente tutte le aziende grosse del settore sono straniere, si consolida il loro dominio, e si impedisce la creazione di alternative locali.
In altre parole tentando di proteggere il settore “culturale” europeo si va a ledere il settore tecnologico. Quello che davvero i nostri giornalisti non sembrano aver capito è che il problema non è la monetizzazione dei contenuti, ma la competizione per l’attenzione degli utenti. Facebook non fa i miliardi con le pubblicità perché sono mirate (ovvio, aiuta), ma perché il 70% del tempo online dell’utente medio è distribuito fra Facebook e Google. I giornali, e i media tradizionali in generale, hanno funzionato economicamente letteralmente per secoli senza dover tracciar nessuno, semplicemente perché monopolizzavano l’attenzione delle masse. Su questo terreno di gioco la link tax può essere al massimo una goccia nel mare, e molto più probabilmente potrare a un’ulteriore perdita di rilevanza dei giornali tradizionali, in termini di mindshare. L’utente medio si troverà i link agli articoli del Corriere privi di preview, mentre quelli delle pagine sensazionalistiche saranno belli e colorati. Tanto i link non li clicca nessuno.
Io invece mi troverò a dover caricare i miei video, che già su Facebook non guarda nessuno, sul mio buon vecchio server. Le piattaforme si svuoteranno di contenuto generato dagli utenti e si riempiranno di contenuti commerciali, fenomeno già ben avviato, e si tornerà tutti a esser consumatori invece che creatori. I giornali fanno il gioco di IGTV e musically, e manco se ne accorgono.